Menu di navigazione principale
Vai al menu di sezioneInizio contenuto
Allegato B
Seduta n. 105 del 7/2/2007
ATTI DI INDIRIZZO
Mozioni:
La Camera,
premesso che:
in Italia ogni giorno migliaia di poliziotti e carabinieri sono impegnati in servizi istituzionali sempre più gravosi e di natura diversa (ordine pubblico in occasione di manifestazioni sportive, politiche, musicali, etc), ed inoltre in attività di polizia giudiziaria su indagini delegate dalla stessa Autorità Giudiziaria che assorbono decine di migliaia di operatori sottraendoli di fatto al controllo del territorio;
le forze di polizia si trovano a confrontarsi con una evidente carenza di risorse, di mezzi e di infrastrutture che ne limita la capacità operativa;
nelle città il controllo del territorio potrebbe migliorare anche con il concorso delle polizia locali ma per carenza normativa, l'impossibilità di nuove assunzioni ed i limiti contrattuali che ne limitano il servizio notturno, l'apporto di quest'ultimi è solo marginale;
chiaramente i cittadini avvertono la scarsa presenza di Forze dell'Ordine sul territorio e questa sensazione fa nascere in loro una forte «percezione di insicurezza»;
partendo naturalmente dal principio che la sicurezza del cittadino deve essere affidata e garantita dallo Stato attraverso le Forze dell'Ordine, non si può comunque negare ad un cittadino, senza invadere le funzioni delle stesse forze dell'ordine, la libertà di collaborazione. Per collaborazione si intende la mera segnalazione di ogni fatto che può costituire un reato o una minaccia di pericolo;
è da ritenere che i cittadini con iniziative di collaborazione e con la loro presenza in strada, manifestano la volontà di riappropriarsi di aree urbane ben recise sottraendole al degrado e alla presenza della criminalità, contribuendo a far crescere una maggior cultura della legalità e senso civico,
impegna il Governo:
ad intervenire con tempestività ed a stanziare più fondi per l'assunzione di ulteriore personale nelle Forze dell'Ordine da destinare al controllo del territorio;
ad assumere iniziative per modificare la normativa blocco delle assunzioni previsto dalla legge finanziaria, e consentire ai sindaci ai poter assumere nuovi operatori di polizia municipale;
ad assumere iniziative normative per rivedere il blocco delle spese previsto per il personale dei comuni eliminando da questo tutte le spese inerenti il pagamento degli straordinari e dei servizi notturni degli agenti della Polizia Locale;
a promuovere accordi di programma tra le Prefetture e le Regioni per destinare fondi alle tecnologie, ai mezzi, alle infrastrutture come riportato nell'ultima legge finanziaria;
a promuovere nelle scuole la cultura della legalità e della collaborazione con le forze di polizia.
(1-00089) «Ascierto, Ronchi, Gasparri, Urso, Tremaglia, Porcu, Foti, Airaghi, Gamba, Rampelli, Briguglio, Mancuso, Frassinetti, Angela Napoli, Giorgio Conte, Menia, Amoruso, Bellotti, Patarino, Ciccioli, Murgia, Bono, Contento, Saglia, Migliori, Benedetti Valentini».
La Camera,
premesso che:
la questione dell'ampliamento della base militare USA di Vicenza ha avuto
inizio fin dall'ottobre del 2004, come risulta dalla relazione, precisa e puntuale, che sicuramente ha fornito un contributo importante per una piena conoscenza dei fatti, resa dal Ministro Parisi alla Camera lo scorso 30 gennaio;
da lì si è messo in moto un procedimento che, sebbene non sia stato mai formalizzato, nel senso che non è stata apposta la firma ad alcuna convenzione o trattato e non vi siano stati atti che hanno impegnato il governo, tuttavia sicuramente ha determinato quella vincolatività legata anche ai rapporti tra governi e tra paesi amici, che devono essere caratterizzati da lealtà, sicurezza e trasparenza;
impegni di questo tipo non erano casuali, ma coinvolgevano i massimi livelli delle autorità militari italiane e statunitensi con il pieno sostegno del governo italiano come dichiarato dall'ex ministro Martino;
queste scelte venivano avallate da deliberazioni del Consiglio comunale di Vicenza e tramite il parere reso dalla commissione paritetica della Regione Veneto, in presenza del sindaco Hullweck, ma senza cercare il consenso ed il coinvolgimento della popolazione di Vicenza;
l'attuale governo si è ritrovato con un impegno politico già assunto e che correttamente ha ritenuto di confermare;
la volontà manifestata dal Ministro Parisi e dal governo di sospendere la formalizzazione dell'accordo per dare tempo ai cittadini di Vicenza di esprimere la propria opinione su un tema così delicato è stato atto importante e positivo;
sono tuttavia mancate iniziative chiare da parte del governo, tali da consentire ai cittadini di Vicenza ed alle forze politiche locali di essere consapevoli che il tempo per le scelte era brevissimo;
proprio da questo oggi deve derivare un'attenzione molto più forte alle esigenze delle popolazioni locali,
impegna il Governo:
a fare in modo che nella fase di attuazione, attraverso i patti che verranno siglati con le comunità locali e l'amministrazione statunitense, possano trovare la più ampia considerazione e, auspicabilmente, il più ampio accoglimento, le istanze dei cittadini vicentini;
a valutare anche la definitiva ubicazione di tale base, visto che questo compendio è composto di due parti, una civile e una militare, dove l'uso dell'una piuttosto che dell'altra non sarebbe neppure irrilevante sotto il profilo urbanistico e della viabilità;
ad informare costantemente le popolazioni interessate con il massimo di dettaglio consultandole altresì in relazione alle possibili opzioni di carattere urbanistico, viabilistico e più in generale capaci di incidere sul tessuto economico sociale dei comuni coinvolti.
(1-00090) «Donadi, Borghesi».
La Camera,
premesso che:
il Piano Energetico Nazionale adottato dal Governo nell'agosto 1988 ha definitivamente deciso in ordine al processo di chiusura degli impianti nucleari in Italia;
allo stesso tempo, con la mozione n. 1-00383 Bianchini, discussa nella X legislatura e approvata nella seduta del 12 aprile 1990, la Camera dei deputati ha confortato tale decisione con un preciso impegno al Governo, nel senso di prevedere la definitiva conclusione del «ciclo del nucleare» in Italia, avviando, in particolare, i piani di decommissioning delle centrali elettronucleari di Trino Vercellese e di Caorso;
la scelta adottata a quel tempo da Governo e Parlamento era, peraltro, frutto di una scelta, di natura fortemente emotiva, dettata dall'esito del referendum del 1987, promosso a seguito dei drammatici eventi di Chernobyl;
la realtà dei fatti che si sono succeduti dopo gli inizi degli anni '90 ha dimostrato, in modo inequivocabile, che numerosi problemi si sono aperti nell'attuazione pratica degli impegni derivanti dal referendum del 1987 e che la scelta di gran parte del mondo politico di procedere con i piani di smantellamento delle centrali, oltre a creare notevoli problemi in termini di gestione dei rifiuti radioattivi e di messa in sicurezza degli impianti da dismettere, ha anche evidenziato una drastica riduzione della capacità energetica del Paese, ormai sempre più dipendente dall'estero per quanto concerne le fonti di approvvigionamento e di produzione energetica;
basti pensare, al riguardo, alla dipendenza energetica dell'Italia dalla Francia, che - con impianti nucleari localizzati praticamente ai confini italiani - fornisce al nostro Paese energia nucleare pari all'incirca al 10 per cento del fabbisogno nazionale;
analogamente, non vanno trascurati i problemi derivanti dal forte condizionamento che i Paesi produttori di petrolio e di gas naturale possono esercitare, in termini economici e geo-politici, sull'Italia, la quale - non avendo creato valide alternative all'energia nucleare - si trova in costante deficit per quanto concerne i propri fabbisogni energetici;
occorre, pertanto, avviare una seria riflessione sulle scelte adottate tra la fine degli anni '80 e gli inizi degli anni '90, evitando - peraltro - di considerare la scelta referendaria del 1987 come un vincolo insormontabile, attesa anche la possibilità di rideterminare, alla luce dell'evoluzione delle società contemporanee, una politica energetica nazionale che ponga l'Italia nelle condizioni di competere ancora sui mercati delle fonti di energia;
la stessa mozione n. 1-00383 Bianchini, citata in precedenza, invitava il Governo a mantenere l'impegno per la ricerca «nel campo dei reattori nucleari intrinsecamente sicuri nonché nella fusione nucleare»;
sono, dunque, numerosi i motivi che giustificherebbero una riapertura del confronto sui temi dell'energia nucleare per usi civili,
impegna il Governo:
a) ad intraprendere una decisa politica di ripresa degli studi tecnici finalizzati a verificare - in termini di prospettive energetiche, di costi e di rilancio economico - la possibile realizzazione di nuove centrali elettronucleari ad usi civili sul territorio nazionale;
b) a potenziare fortemente, nel frattempo, la ricerca scientifica - anche in collaborazione con organismi comunitari e internazionali - nel settore del nucleare, considerato che essa non risulta esclusa dalle norme vigenti ed è, allo stato, legittimamente svolta dagli enti preposti;
c) ad investire con determinazione sulla formazione tecnica e specialistica nel settore dell'ingegneria nucleare, in ambito universitario e post-universitario, anche al fine di non disperdere e, semmai, di rafforzare competenze e professionalità altamente qualificate, ormai sempre più rare nel nostro Paese ed a costante rischio di trasferimento in altri Paesi più all'avanguardia;
d) ad informare costantemente il Parlamento sulle tematiche in oggetto, anche mediante un periodico intervento di rappresentanti del Governo presso le Commissioni parlamentari competenti.
(1-00091) «Foti, La Russa, Nespoli, Saglia, Airaghi, Migliori, Lamorte, Angela Napoli, Bellotti, Urso, Gamba».
La Camera,
premesso che:
la politica dei consumatori dell'Unione europea è volta a stabilire prescrizioni di base in materia di salute e sicurezza e a tutelare gli interessi economici del pubblico al fine di assicurare un
elevato livello di protezione e soddisfare le aspettative dei cittadini in tutta l'Unione;
per tale scopo i consumatori dovrebbero ricevere le informazioni necessarie per poter scegliere in modo appropriato e dovrebbero anche essere tutelati contro le pratiche ingannevoli o abusive;
la direttiva 2000/13/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 marzo 2000, relativa al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri concernenti l'etichettatura e la presentazione dei prodotti alimentari, nonché la relativa pubblicità, stabilisce, tra l'altro, che qualsiasi regolamentazione relativa all'etichettatura dei prodotti alimentari deve essere fondata anzitutto sulla necessità d'informare e tutelare i consumatori;
la stessa direttiva enuncia che l'etichettatura dei prodotti alimentari deve comportare determinate indicazioni obbligatorie, tra cui il luogo d'origine o di provenienza, qualora l'omissione di tale indicazione possa indurre in errore il consumatore circa l'origine o la provenienza effettiva del prodotto alimentare;
di norma gli Stati membri non possono vietare il commercio dei prodotti alimentari conformi alle norme previste dalla citata direttiva, magari applicando disposizioni nazionali non armonizzate relative all'etichettatura e alla presentazione di determinati prodotti alimentari o dei prodotti alimentari in genere. Tale divieto, però, non è applicabile alle disposizioni nazionali non armonizzate giustificate da pertinenti motivi, quali quelli di tutela della salute pubblica o di repressione delle frodi (purché queste disposizioni non siano tali da ostacolare l'applicazione delle definizioni e delle norme previste dalla direttiva), di tutela della proprietà industriale e commerciale, di indicazioni di provenienza, di denominazioni d'origine e di repressione della concorrenza sleale;
nel quadro del diritto comunitario è previsto che le disposizioni comunitarie applicabili soltanto a determinati prodotti alimentari e non ai prodotti alimentari in generale possano prevedere altre indicazioni obbligatorie oltre a quelle enumerate dalla direttiva sull'etichettatura e la presentazione dei prodotti alimentari;
una delle norme comunitarie applicabile ad un determinato alimento e per il quale vigono misure specifiche anche più cogenti di quelle recate dalla direttiva sull'etichettatura e la presentazione dei prodotti alimentari, è il Regolamento (CE) n. 1019/2002 della Commissione, del 13 giugno 2002, relativo alle norme di commercializzazione dell'olio d'oliva;
tra le premesse del regolamento si fa riferimento alle peculiarità agro-qualitative ed alle dirette conseguenze commerciali che attengono appositamente all'olio d'oliva;
in tal senso è chiarito che a motivo degli usi agricoli o delle pratiche locali di estrazione o di taglio, gli oli di oliva vergini direttamente commercializzabili possono presentare qualità e sapore notevolmente diversi tra loro a seconda dell'origine geografica. Ne possono risultare, all'interno di una stessa categoria di olio, differenze di prezzo che perturbano il mercato. Per le altre categorie di oli commestibili non vi sono differenze sostanziali legate all'origine, come potrebbe invece far credere qualsiasi legame con un determinato luogo, ad esempio la sede dell'impresa di miscelazione o di imbottigliamento dell'olio, o l'indicazione dell'origine dell'olivo d'oliva, ma non delle olive, sugli imballaggi destinati ai consumatori;
facendo proprio un principio di carattere sostanziale recato dalla legge 3 agosto 1998, n. 313, volto a tutelare l'origine italiana dell'olio di oliva contro gli usi impropri o ingannevoli che di tale indicazione si potevano fare nel dichiararla in etichetta, il Regolamento (CE) n. 1019/2002 ha analogamente stabilito come sia necessario, per evitare rischi di distorsione del mercato degli oli d'oliva commestibili, stabilire norme comunitarie relative alla designazione dell'origine esclusivamente per l'olio «extra vergine» di oliva e l'olio di oliva «vergine» rispondenti a precisi
requisiti e ad ogni modo a legare in maniera inscindibile l'origine delle olive a quelle dell'olio;
un regime obbligatorio di designazione dell'origine per queste categorie di oli d'oliva costituisce ancora un obiettivo da realizzare a livello comunitario. Tuttavia, in attesa che sia istituito un regime di tracciabilità e di controlli su tutti i quantitativi di olio in circolazione, e non essendo possibile per ora mettere in atto un tale sistema in tutta l'Unione europea, come del resto ha amaramente constatato la Commissione europea, occorre senza dubbio adottare iniziative minime di rango nazionale che vadano in quella direzione;
la Commissione europea, tramite il citato Regolamento (CE) n. 1019/02, ha stabilito l'assunto secondo cui qualora la designazione dell'origine degli oli d'oliva vergini si riferisca alla Comunità o a uno Stato membro, bisogna tenere conto del fatto che le olive utilizzate, come pure le pratiche e le tecniche di estrazione, incidono sulla qualità e sul sapore dell'olio. La designazione dell'origine deve quindi riferirsi alla zona geografica nella quale l'olio d'oliva è stato ottenuto, che di norma corrisponde alla zona nella quale è stato estratto dalle olive. Tuttavia, se il luogo di raccolta delle olive è diverso da quello di estrazione dell'olio, è opportuno che tale informazione sia indicata sugli imballaggi o sulle relative etichette per non indurre in errore il consumatore e non perturbare il mercato dell'olio d'oliva;
sulla base di queste premesse, l'articolo 4, comma 5, del Regolamento (CE) n. 1019/2002 ha stabilito che la designazione dell'origine che indica uno Stato membro o la Comunità deve corrispondere alla zona geografica nella quale le olive sono state raccolte e in cui è situato il frantoio nel quale è stato estratto l'olio. Conseguentemente, qualora le olive siano state raccolte in uno Stato membro o un paese terzo diverso da quello in cui è situato il frantoio nel quale è stato estratto l'olio, la designazione dell'origine comporta la dicitura seguente: «Olio (extra) vergine di oliva ottenuto in (designazione della Comunità o dello Stato membro interessato) da olive raccolte in (designazione della Comunità, dello Stato membro o del paese interessato)»;
in Italia esistono imprese di imbottigliamento o di confezionamento assai importanti e di elevata rinomanza in quanto a qualità degli oli che commercializzano, trattasi per lo più di aziende che hanno sede legale in regioni in cui esistono antiche e consolidate tradizioni olivicole-olearie e che nel tempo sono riuscite a conferire una reputazione intangibile ai loro oli d'oliva, ottenuti dalla frangitura, in loco, delle olive coltivate e raccolte nel proprio territorio;
si verificano sempre più frequentemente casi in cui i consumatori ritengono di essere ingannati o ad ogni modo di non essere trattati in maniera trasparente quando vedono sul mercato confezioni di olio di oliva definito «locale», in quanto prodotto con olive raccolte nei territori d'origine, a prezzi significativamente superiori rispetto ai corrispondenti oli fabbricati da imprese anch'esse locali, ma che non producendo olio, non indicano l'origine della derrata venduta. Tale fenomeno ingenera confusione nel consumatore e spesso ritenendo che il prezzo più alto sia un tentativo di speculazione o un approfittarsi della propria buona fede, reagisce evitando di acquistare quell'olio di oliva che pur avrebbe desiderato, magari perché veramente originario del luogo, ma che nel dubbio esclude;
è del tutto evidente che in ragione delle particolari condizioni agronomiche e territoriali del sistema olivicolo ed oleario italiano, i costi che sono necessari per ottenere un olio d'oliva autenticamente nazionale, realizzato con olive raccolte in ambito regionale e spesso su territori difficili, con tecniche che badano soprattutto alla qualità ed alla genuinità, utilizzando varietà selezionate e manodopera qualificata, possono risultare superiori a quelli necessari per il semplice taglio ed imbottigliamento di oli ottenuti in Paesi terzi a
condizioni molto più vantaggiose che non quelle italiane;
per questi motivi andrebbe reso obbligatorio il processo di tracciabilità dell'olio d'oliva commercializzato in Italia, sia per dare il giusto riconoscimento al lavoro svolto dagli olivicoltori interessati, sia per fare in modo che il consumatore sia correttamente informato e totalmente consapevole delle circostanze che attengono alla formazione del prezzo dell'olio d'oliva che intende acquistare. Si tratterebbe, infine, di un approccio pienamente conforme ed in linea con gli obiettivi perseguiti dall'Unione europea;
tali finalità si possono conseguire applicando in maniera coerente le norme regolamentari ed amministrative già esistenti. In particolare si dovrebbero adottare specifiche disposizioni che prescrivano l'obbligatorietà di far intendere come designazione di origine, e perciò con il vincolo di indicare in etichetta la zona geografica in cui sono state raccolte le olive ed in cui è situato il frantoio da cui è stato estratto l'olio, il nome della ragione sociale o del marchio depositato e della sede o del fabbricante o del confezionatore o di un venditore, unitamente all'indicazione della sede dello stabilimento di produzione o di confezionamento dell'olio di cui trattasi;
nello stesso verso, dal momento che la Commissione europea, con nota del 13 ottobre 2006, avrebbe chiesto chiarimenti allo Stato italiano su alcune previsioni recate dal decreto-legge 24 giugno 2004, n. 157, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2004, n. 204, in quanto avrebbe osservato che la normativa in oggetto doveva essere materia di una notifica preventiva in conformità alla direttiva 98/34/CE, nonché che le specifiche misure riguardanti l'obbligo di indicare sull'etichetta di tutti i prodotti alimentari commercializzati in Italia il luogo di origine o di provenienza e, nel caso di prodotti trasformati, la zona di coltivazione o di allevamento della materia prima utilizzata, spingerebbero i consumatori a preferire i prodotti nazionali, andrebbero intraprese iniziative verso la stessa Commissione affinché, per i motivi e le peculiarità che sono propri del sistema olivicolo-oleario italiano e per le tutele e le garanzie che bisogna assicurare al consumatore, essa decida che le disposizioni di cui articolo 1-ter del citato decreto-legge 24 giugno 2004, n. 157, convertito dalla legge 3 agosto 2004, n. 204, non sono contrarie all'articolo 28 del Trattato né alle regole previste dal diritto comunitario in materia di concorrenza e di libero scambio delle merci,
impegna il Governo:
fatta salva la piena e completa applicazione del sistema della rintracciabilità come in tal senso istituito al fine di garantire la sicurezza alimentare, ad intraprendere le necessarie iniziative affinché nel quadro ordinamentale o amministrativo italiano, secondo il caso, sia prevista una misura che indichi che nell'etichettatura degli oli di oliva vergine ed extravergine, l'indicazione del nome o della ragione sociale o del marchio depositato e della sede o del fabbricante o del confezionatore o di un venditore stabilito nell'Unione europea, e l'indicazione della sede dello stabilimento di produzione o di confezionamento, apposte ai sensi dell'articolo 3 del decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 109 e successive modificazioni relativo al recepimento della direttiva 2000/13/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 marzo 2000, relativa al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri concernenti l'etichettatura e la presentazione dei prodotti alimentari, nonché la relativa pubblicità, costituiscono designazione di origine ai sensi e per gli effetti del Regolamento (CE) n. 1019/2002 della Commissione, del 13 giugno 2002, relativo alle norme di commercializzazione dell'olio d'oliva, e devono essere accompagnate, ai sensi dell'articolo 4, comma 5 del medesimo regolamento, dall'indicazione della zona geografica nella quale le olive sono state raccolte e in cui è situato il frantoio nel quale è stato
estratto l'olio, facendo sì che le citate indicazioni figurino nel campo visivo in cui è riportata la denominazione di vendita e con caratteri di dimensioni non inferiori a questa;
ad adottare le occorrenti iniziative che siano in grado di chiarire e di persuadere la Commissione europea che le disposizioni di cui all'articolo 1-ter del decreto-legge 24 giugno 2004, n. 157, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2004, n. 204, sono dirette al conseguimento dei principi stabiliti dall'articolo 153 del Trattato, relativo alla protezione dei consumatori, nonché alle pertinenti finalità della direttiva 2000/13/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 marzo 2000, relativa al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri concernenti l'etichettatura e la presentazione dei prodotti alimentari, nonché la relativa pubblicità, come specificamente riportato in premessa;
ad assicurare la totale e conforme applicazione dei principi e dei diritti contenuti nel codice del consumo al fine di garantire scelte informate e responsabili da parte del consumatore.
(1-00092) «Bonelli, Lion, Fundarò, Camillo Piazza, Pellegrino, Balducci».
Risoluzione in Commissione:
La IX Commissione,
premesso che:
la linea protezionistica sostenuta, dai diversi Governi, fin dagli anni novanta, nei confronti dell'autotrasporto è all'origine dell'attuale stato di crisi del settore, che, dovendo fare i conti con una struttura dei costi superiore alla media europea, deve sostenere la concorrenza sempre più aggressiva degli altri vettori europei, in particolare quelli provenienti dai Paesi dell'Est;
l'autotrasporto merci è un settore strategico per la crescita economica del Nord, dove esiste un'alta concentrazione di imprese di settore, ma anche dell'intero Paese; con le sue 185 mila imprese, movimentando l'80o delle merci e producendo circa il 10 per cento del prodotto interno lordo, il settore si è fortemente accresciuto rispetto alle altre modalità di trasporto;
i dati contenuti nel Libro Bianco sui Trasporti dell'Unione europea indicano che tra il 1990 e 1998 il trasporto merci su strada è aumentato del 19,4 per cento mentre nello stesso periodo, il traffico ferroviario è diminuito del 43,5 per cento. Secondo le stime dell'Unione europea il trasporto merci è destinato ad aumentare, entro il 2010, del 50 per cento, provocando il collasso delle maggiori arterie infrastrutturali nazionali, che si sviluppano per gran parte sull'area padana;
l'insoddisfacente livello di infrastrutturazione e di modernizzazione dell'organizzazione logistica del nostro Paese penalizza fortemente le imprese di autotrasporto nazionali, che presentano un basso livello di competitività rispetto agli operatori europei. Nel 2006, in Italia la velocità commerciale media per gli autoveicoli da trasporto pesante è stata di 50 Km/h, mentre in Francia e in Germania è stata di 55 Km/h;
lo studio sulla comparazione dei costi operativi sostenuti dalle aziende di autotrasporto, condotto dal Comitato Centrale Albo Nazionale Autotrasportatori in otto paesi dell'Unione europea, evidenzia una situazione di persistente difficoltà dell'Italia rispetto ai Paesi concorrenti; il costo per chilometro in Italia è il più alto in assoluto con un differenziale che oscilla tra l'8 per cento e il 35 per cento di maggiorazione rispetto ai membri storici dell'Unione europea mentre è di gran lunga superiore rispetto all'Ungheria (52 per cento) alla Polonia (73 per cento) e Romania (99%);
la forte concorrenza delle aziende che si sono efficacemente ristrutturate, come le francesi e le tedesche, ma anche delle aziende di trasporto che spesso operano
senza il rispetto delle regole di mercato, rende necessario il completamento della riforma del settore al fine di creare un sistema di regole comuni che salvaguardino le imprese nazionali sia sotto il profilo della concorrenza sia sotto il profilo della sicurezza stradale;
le iniziative di natura normativa adottate dai diversi Governi per ridurre gli alti costi di esercizio che gravano sulle nostre imprese di autotrasporto si sono rilevate poco efficaci e la significativa riduzione delle risorse destinate all'autotrasporto, prevista nell'ultima finanziaria, rischia di ostacolare il processo di liberalizzazione del settore, voluto con la legge delega 1o marzo 2005, n. 32,
impegna il Governo:
ad adottare tutte le misure e le iniziative necessarie ad attuare il definitivo completamento della riforma dell'autotrasporto merci, al fine di garantire la sopravvivenza delle imprese di autotrasporto nazionali e di favorire lo sviluppo di una concorrenza basata sul comune rispetto delle regole di mercato;
ad attuare politiche di sviluppo della competitività, in grado di rimuovere gli ostacoli di natura strutturale che impediscono alle imprese di autotrasporto di accedere liberamente alla rete infrastrutturale del Paese, anche favorendo la realizzazione di arterie di grande scorrimento come la Bre.be.mi, la Valdastico Nord, la Pedemontana Lombarda e Veneta, la T.E.M. e la Valcamonica;
a verificare l'efficacia degli strumenti che consentono il pieno rispetto e il puntuale controllo della regolarità amministrativa di circolazione, al fine di poter accertare l'eventuale presenza sulle nostre strade di vettori che operano senza il rispetto delle comuni regole di mercato.
(7-00120) «Caparini, Gibelli, Fugatti».