Il riordino del diritto ambientale

Legge delega e schema di decreto legislativo

L’intero arco temporale della XIV legislatura è stato attraversato dall’iter della legge di delega per il riordino della legislazione in materia ambientale e dall’esame in sede consultiva del relativo schema di decreto legislativo: rispettivamente, legge 15 dicembre 2004, n. 308 e decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, recante Norme in materia ambientale.

L’iter parlamentare del disegno di legge recante la delega (AC 1798) è  iniziato alla Camera il 13 novembre 2001 e si è protratto per oltre 3 anni, in quanto il disegno di legge è stato definitivamente approvato solo il 24 novembre del 2004, dopo cinque passaggi parlamentari, e dopo che – per tre volte – il Governo ha richiesto il voto di fiducia. Durante questo lungo iter parlamentare il testo originario ha subito notevoli cambiamenti: originariamente composto da soli 4 articoli (11 commi) recanti le sole disposizioni di delega, al momento della approvazione finale esso era composto da 54 commi, di cui solo i primi 19 attinenti alla delega, mentre i rimanenti 35 hanno introdotto una lunga serie di norme di dettaglio, di diretta applicazione.

Anche l’esame dello schema di decreto attuativo della delega ha rappresentato un momento importante e complesso della attività degli organi parlamentari maggiormente coinvolti: la 13° Commissione del Senato e la VIIII Commissione della Camera dei deputati.

Occorre ricordare, infatti, che l’art. 1, comma 5, della legge n. 308 ha previsto un doppio parere da parte delle competenti Commissioni parlamentari, riferito – rispettivamente – allo schema di decreto originariamente approvato dal Governo e ad una successiva versione, ritrasmessa alle Camere, comprensiva delle modifiche e integrazioni apportate a seguito dei pareri parlamentari. L’VIII Commissione della Camera ha dedicato all’esame del primo schema di decreto (Atto del Governo n. 572) 8 sedute tra il dicembre e il gennaio 2006. Inoltre – in apposite sessioni tenute congiuntamente con la 13° Commissione del Senato il 13, il 14, il 15 e il 19 dicembre 2005 - sono stati auditi numerosi soggetti (sia istituzionali, sia rappresentativi degli interessi coinvolti)[1]. In data 19 gennaio è stato approvato il parere presentato dal relatore, On. Foti (mentre i gruppi Democratici di sinistra- L’Ulivo, Margherita D-L l’Ulivo, Rifondazione comunista, Misto-Verdi e Misto-Rosa nel pugno hanno presentato un parere alternativo e non hanno partecipato al voto).

Per quanto riguarda il secondo schema di decreto (Atto del Governo n. 596), l’VIII Commissione ha svolto l’esame in 5 sedute fra il 25 e il 31 gennaio 2006[2], approvando un secondo parere, presentato dallo stesso relatore, mentre i gruppi di opposizione – anche in questa seconda tornata – hanno presentato una proposta alternativa recante pare contrario.

In conclusione, può dirsi che – ad esclusione dei primissimi mesi, fino al novembre 2001, e del periodo dicembre 2004-novembre 2005 – il Parlamento si è occupato, praticamente per l’intera legislatura, del riordino della materia ambientale. Anche sul piano non meramente quantitativo, occorre sottolineare non solo l’incisività delle modifiche parlamentari al disegno di legge di delega (come già sopra ricordato), ma anche la particolarità del doppio esame parlamentare, concluso – a parte i pareri alternativi, recanti radicali critiche, sia di metodo che di contenuto – con due pareri, approvati dalla maggioranza, in cui sono stati elencate numerose e puntuali osservazioni e condizioni[3].

Pertanto, anche se il decreto legislativo n. 152 ha effettivamente – in molte sue parti – innovato in modo sostanziale la legislazione ambientale, la lettura degli atti parlamentari non sembra consentire giudizi riduttivi sul ruolo del Parlamento in tale operazione.

L’ampiezza del contenuto normativo del decreto legislativo n. 152 è determinato, in primo luogo, dal perimetro stesso della delega (art. 1, comma 1, della legge n. 308 del 2004), articolato in 7 grandi ambiti materiali:

a) gestione dei rifiuti e bonifica dei siti contaminati;

b) tutela delle acque dall'inquinamento e gestione delle risorse idriche;

c) difesa del suolo e lotta alla desertificazione;

d) gestione delle aree protette, conservazione e utilizzo sostenibile degli esemplari di specie protette di flora e di fauna;

e) tutela risarcitoria contro i danni all'ambiente;

f) procedure per la valutazione di impatto ambientale (VIA), per la valutazione ambientale strategica (VAS) e per l'autorizzazione ambientale integrata IPPC;

g) tutela dell'aria e riduzione delle emissioni in atmosfera.

Tale elencazione non comprende l’intera materia che comunemente viene fatta rientrare nella nozione di “diritto ambientale”. Infatti, non tocca alcune normative, quali – ad esempio – quelle relative all’inquinamento acustico, all’inquinamento elettromagnetico, alla tutela della fauna, alle biotecnologie, alla contabilità ambientale, ai rischi di incidente rilevante, alle energie rinnovabili, all’eco-certificazione.

Inoltre, l’oggetto della delega di cui alla lettera d) del precedente elenco (aree protette), non è stato considerato in sede di riordino (per cui la delega, sotto questo profilo, non è stata eseguita).

Il decreto n. 152 non viene quindi a costituirsi come quel “codice dell’ambiente” da sempre vagheggiato dalla dottrina, ma rappresenta tuttavia, dal 14 aprile 2006 (data della pubblicazione in GU) il principale atto normativo di riferimento in materia ambientale (o, per lo meno, in materia di VIA e VAS, tutela delle acque e difesa del suolo, rifiuti, inquinamento atmosferico e danno ambientale).

Esso è strutturato in sei parti, per un complesso di 318 articoli e 45 allegati.

 

La Parte Prima reca un numero ristretto (artt. 1-3) di disposizioni di carattere generale. La prima è quella contenuta all’articolo 2, comma 1, in cui si esplicita una finalità generale delle norme del decreto: la “promozione della qualità della vita umana, da realizzare attraverso la salvaguardia e il miglioramento delle condizioni dell’ambiente e l’utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali”. Da tale esplicitazione sembra discendere un principio generale (che può valere anche come principio interpretativo) di strumentalità della tutela dell’ambiente rispetto al vero fine che il legislatore pone, che è quello della promozione della qualità della vita umana.

Una seconda disposizione generale – attinente questa volta ad un principio di qualità della legislazione - è quella contenuta all’art. 3, comma 1, in merito alla previsione di successive modifiche alle norme oggetto del decreto solo in forma di novelle espresse. Per quanto facilmente aggirabile dallo stesso legislatore, tale disposizione ha lo scopo di non vanificare lo sforzo di riordino e unificazione delle fonti operato con il decreto legislativo.

Infine, le disposizioni recate dai commi 2-5 dello stesso art. 3 recano la disciplina relativa all’emanazione di atti attuativi di rango subprimario.

Si stabilisce un termine (2 anni dalla data di pubblicazione del decreto, quindi il 14 aprile 2008) entro il quale

§      il Governo può emanare regolamenti, anche di delegificazione (ai sensi dell’art. 17, comma 2, della legge n. 400 del 1988), per la modifica e l’integrazione dei regolamenti vigenti;

§      il Ministro dell’ambiente può modificare o integrare le norme tecniche in materia ambientale, con decreto ministeriale, ai sensi dell’art. 17, comma 3, della stessa legge n. 400 del 1988.

 

Si osserva, in proposito, che l’intero decreto reca poi, una serie assai lunga di rinvii a successivi atti attuativi (di cui si riporta l’elenco completo nella scheda Il riordino del diritto ambientale – Rinvii a successivi atti attuativi).

E’ bene ricordare che la potestà regolamentare in materia non può essere data per scontata (ai sensi del sesto comma dell’articolo 117 della Costituzione): infatti molte parti del decreto legislativo riguardano aspetti non interamente racchiudibili nelle finalità di tutela dell’ambiente, o per lo meno interconnessi con altri ambiti materiali elencati dall’articolo 117 e non sempre attribuiti alla competenza esclusiva dello Stato (difesa del suolo, governo del territorio).

Inoltre, è da considerare anche la particolare interpretazione che la Corte costituzionale ha dato della esclusività della competenza statale in materia ambientale (v. schede Ambiente – Giurisprudenza costituzionale e Ambiente e territorio – Sentenza 307/2003).

VIA, VAS e IPPC

Nella Parte Seconda del decreto vengono raccolte le disposizioni in materia di Valutazione di Impatto Ambientale (VIA), di Valutazione Ambientale Strategica (VAS) e di Autorizzazione Ambientale Integrata (AIA), meglio nota con l’acronimo in lingua inglese, IPPC (Integrated Pollution Prevention and Controll).

In primo luogo, è necessario sottolineare che – in materia di VIA - viene unificata ed elevata al rango legislativo tutta la normativa previgente che era formata essenzialmente da almeno tre plessi:

§         l’originaria disciplina statale, dichiaratamente transitoria, di recepimento dell'allegato I della direttiva 85/337/CEE[4], che già conteneva al suo interno norme derogatorie sulle centrali termoelettriche e a turbogas dell'Enel;

§         le numerose fonti, di rango primario e secondario, che hanno subordinato alla VIA, episodicamente e secondo schemi differenziati, l'approvazione delle più varie tipologie di opere;

§         la disciplina sulla VIA regionale[5] che aveva completato il recepimento della direttiva 85/337/CEE, sottoponendo a VIA anche le opere elencate nell’allegato II della direttiva stessa.

Rimane, invece, esclusa dal riordino normativo la disciplina speciale e derogatoria della VIA per le opere infrastrutturali e strategiche di cui alla legge n. 443 del 2001 e al suo decreto attuativo n. 190 del 2002 (v. il capitolo La legge obiettivo). Si rileva, comunque, che la competenza sull’istruttoria relativa alla VIA di tali opere è ora assegnata alla nuova Commissione tecnico-consultiva (art. 48, comma 2).

Da rilevare, in questo intervento di riordino, anche una modifica sostanziale del criterio di attribuzione della responsabilità amministrativa in merito alla procedura di VIA: secondo le norme previgenti era attribuita allo Stato la competenza sulle opere di maggiore impatto (secondo un elenco corrispondente a quello per le quali le norme europee prevedono l’obbligatorietà della procedura di VIA) e alle regioni la competenza su un elenco di tipologia di opere di minore impatto. Con le nuove norme si afferma invece il criterio della corrispondenza fra competenza in materia di VIA e competenza al rilascio dell’autorizzazione alla costruzione (o all’esercizio) dell’opera (o dell’impianto).

 

Per quanto riguarda le disposizioni relative alla VAS (valutazione ambientale preventiva di piani e programmi, laddove la VIA rappresenta la valutazione ambientale preventiva di singole opere), esse recepiscono per la prima volta attraverso una legge dello Stato la direttiva 2001/42/CE (si ricorda, tuttavia, che alcune regioni avevano già provveduto a dare attuazione alla direttiva VAS).

Le norme recate dal decreto n. 152 per la VAS sono state modellate sulla procedura di VIA. Infatti, analogamente a quanto disposto per la procedura di VIA, il criterio in base al quale dovrà essere deciso se sottoporre un piano/programma a VAS statale o regionale, non sarà solo la tipologia del piano/programma, ma l’autorità competente alla sua approvazione. Pertanto, la competenza ad effettuare la VAS appartiene allo stesso organo competente all’approvazione del piano a cui la VAS si riferisce: allo Stato (e quindi al Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio ex art. 2, comma 5, della legge n. 349 del 1986[6]), alla regione o ad altro ente locale territoriale, a seconda del livello territoriale di pianificazione interessato.

Anche le scansioni procedimentali della VAS statale ripercorrono sostanzialmente quelle previste per la procedura di VIA. Appaiono, invece, più pregnanti, nella procedura di VAS, le forme di controllo. E’ infatti prevista all’art. 14 una specifica attività di monitoraggio, finalizzato alla tempestiva individuazione di eventuali effetti negativi e alla adozione di eventuali misure correttive.

 

Invece, in merito all’IPPC (autorizzazione integrata relativa a tutti i possibili impatti di un’opera, prevista dalla direttiva 96/61/CE), occorre rilevare che, contrariamente a quanto indicato dalla rubrica stessa della Parte Seconda, il testo del decreto in realtà non comprende la disciplina di questa particolare autorizzazione, ma solo alcune disposizioni di coordinamento (artt. 34 e 37, commi 8 e segg.). Infatti, la disciplina di recepimento della direttiva comunitaria è ora contenuta nel decreto legislativo n. 59 del 2005 (che non viene compreso nella codificazione operata dallo schema di decreto).

 

Infine, fra le novità introdotte dalla Parte Seconda del decreto legislativo n. 152, deve ricordarsi almeno l’unificazione, in un’unica Commissione di 80 membri, delle competenze statali per la istruttoria delle tre le diverse valutazioni/autorizzazioni (VAS, VIA e IPPC), cui spetteranno anche le attività della VIA sulle cosiddette grandi opere.

Per un maggior approfondimento in merito alle norme recate dalla Parte seconda sulle autorizzazioni ambientali si veda la scheda Il riordino del diritto ambientale – Novità relative alla VIA, VAS e IPPC.

Difesa del suolo, tutela delle acque e gestione delle risorse idriche

Numerosi sono gli elementi di novità contenuti nella Parte Terza del decreto legislativo n. 152.

§      In primo luogo viene operata una unificazione di normative che fino ad oggi sono state strutturalmente separate, e che vengono invece riaccorpate sulla base del comune denominatore di concorrere alla disciplina complessiva delle risorse idriche, sia sotto il profilo della tutela dagli inquinanti, sia sotto quello della gestione dei servizi acquedottistici, di depurazione e fognatura, sia infine sotto il profilo degli interventi di regimentazione.

§      Un secondo elemento di novità è rappresentato dal recepimento di una importante direttiva comunitaria, la direttiva 2000/60/CE (cd “direttiva acque”), e dalla riforma dell’assetto amministrativo disegnato dalla legge n. 183 del 1989 sul governo dei bacini idrografici. Infatti, la direttiva europea prescrive l’istituzione di “distretti idrografici”, che non erano presenti nel nostro sistema amministrativo (v. scheda La direttiva acque 2000/60/CE). Si osserva che la Commissione europea, in data 18 febbraio 2005, aveva deferito alla Corte di giustizia l’Italia per omesso recepimento della direttiva 2000/60/CE, il cui termine di trasposizione era fissato al 22 dicembre 2003 (Causa C-85/05).

§      Infine, vengono introdotte alcune innovazioni normative in materia di affidamento e gestione del servizio idrico integrato e di assetto istituzionale del settore (creazione della Autorità di vigilanza sulle risorse idriche e sui rifiuti).

In particolare, in merito al secondo dei punti sopra segnalati, si può ricordare che la legge n. 183 del 1989 aveva istituito i bacini idrografici, quali ecosistemi unitari, ai fini di un effettivo ed unitario governo dei fenomeni fisici connessi al regime delle acque e alla difesa del suolo. Lo strumento principale di tale funzione di governo del territorio era il piano di bacino. Nell’impostazione della legge n. 183 i bacini potevano essere di tre livelli, a seconda delle dimensioni fisiche del bacino stesso: nazionali (venivano istituiti 11 bacini di rilievo nazionale), interregionali (18) e regionali (per tutta la parte rimanente del territorio, non compresa nei 29 bacini indicati dalla legge). Il governo dei primi, i bacini idrografici nazionali, e soprattutto le funzioni di pianificazione, venivano affidate ad Autorità di bacino, i cui organi di governo erano il Comitato istituzionale, il Comitato tecnico, il Segretario generale e la Segreteria tecnico operativa. Nei 18 bacini interregionali, le funzioni amministrative erano esercitate dalle regioni territorialmente interessate, che dovevano operare d’intesa; infine nei bacini regionali tali funzioni erano esercitate dalla regione.

Il decreto legislativo n. 152 innova tale modello, creando 8 grandi distretti idrografici che coprono l’intero territorio nazionale. Ognuno di tali distretti accorpa pertanto una serie di bacini (tranne il distretto idrografico padano che corrisponde all’ex bacino di rilievo nazionale del Po, e il distretto idrografico pilota del Serchio, che corrisponde all’ex bacino-pilota omonimo[7]). I distretti verranno governati secondo un modello amministrativo unico (delineato agli artt. 63 e 64 del decreto).

 

Per quanto riguarda, invece, la gestione del servizio idrico integrato, si ricorda che la disciplina previgente era rinvenibile:

§      nella legge 5 gennaio 1994, n. 36 (“legge Galli”), che viene sostanzialmente trasfusa nel decreto n. 152 e, conseguentemente abrogata (ad esclusione delll’art. 22, comma 6) dall’art. 175 dello stesso decreto legislativo n. 152;

§      per quanto riguarda le modalità di affidamento dei servizi, dall’art. 113 del TUEL (testo unico enti locali) di cui al DPR n. 267 del 2000, che è stato più volte modificato durante la XIV Legislatura, come illustrato nel capitolo Disciplina dei servizi pubblici locali.

La principale innovazione introdotta dal decreto in commento rispetto a questo quadro normativo è rinvenibile all’art. 150, ove viene esplicitato che l’affidamento a società miste viene ammesso solo a condizione che il socio privato sia stato scelto prima dell’affidamento. Tale limitazione non è invece prevista, in via generale, dall’art. 113 del testo unico enti locali.

 

Infine, un’altra innovazione recata dal decreto legislativo n. 152 è l’istituzione (art. 159) di una Autorità di vigilanza sulle risorse idriche e sui rifiuti come risultato dell’accorpamento[8]:

§         del Comitato per la vigilanza sull’uso delle risorse idriche istituito dall’art. 21 della legge n. 36/1994 (che diventa la Sezione per la vigilanza sulle risorse idriche)

§         dell’Osservatorio nazionale sui rifiuti istituito dall’art. 26 d.lgs. n. 22/1997 (che diventa la Sezione per la vigilanza sui rifiuti).

Il medesimo articolo provvede a disciplinare la composizione, il funzionamento, l’organizzazione e l’operatività dell’autorità.

L’art. 160 definisce – come si legge nella relazione illustrativa – in modo dettagliato “i compiti dell’Autorità nel proprio ruolo di regolazione e controllo a garanzia del rispetto dei diritti degli utenti, della salvaguardia e valorizzazione dell’ambiente e della risorsa idrica, della tutela e promozione della concorrenza”.

Il successivo art. 161 prevede poi l’istituzione di un Osservatorio sulle risorse idriche e sui rifiuti, quale organo strumentale dell’autorità ai fini della raccolta, elaborazione e restituzione di dati statistici e conoscitivi.

Gestione dei rifiuti e bonifica dei siti inquinati

La Parte Quarta è quella nella quale è maggiore l’incidenza di disposizioni innovative.

La normativa di rango primario sui rifiuti risaliva, prima del decreto in esame, al decreto legislativo n. 22 del 1997 (cd “decreto Ronchi”), varato, appunto, nel 1997, in attuazione di tre direttive europee[9], ma oggetto sin da allora di un’attività pressoché costante di modifica sia di carattere innovativo, sia di mera manutenzione normativa.

Con il decreto legislativo n. 152 a questo processo viene impressa un’accelerazione, in varie direzioni.

Alla sintetica trattazione che si riporta di seguito, va premesso un rinvio ai maggiori approfondimenti recati – in questo dossier – dalla scheda Il riordino del diritto ambientale - Novità in materia di rifiuti e bonifiche.

In primo luogo si procede ad una semplificazione di alcune delle procedure amministrative previste dal “decreto Ronchi”.

Particolarmente significative, sotto questo profilo, sono le norme relative agli accordi di programma (artt. 178, comma 4, 180, comma 1, lett. c), 181, commi 4-11, e 206), cioè accordi fra pubbliche amministrazioni, altri enti pubblici[10] e soggetti privati[11], per la gestione di determinate categorie o flussi di rifiuti. Questi accordi devono  essere finalizzati a:

§      prevenire e ridurre la produzione e la pericolosità dei rifiuti (art. 180, comma 1, lettera c);

§      favorirne il recupero (art. 181, commi 4-11)[12]

E’ opportuno ricordare in proposito che norme che prevedono accordi di programmi per la gestione dei rifiuti erano già presenti nell’ordinamento previgente[13] e che tali previsioni normative non sono di per sé incompatibili con il diritto comunitario, in quanto l’art. 11 della direttiva 75/442/CEE, come modificata dalla direttiva 91/156/CEE, prevede che gli Stati membri possano disporre la dispensa autorizzatoria del recupero agevolato[14].

La novità del decreto legislativo n. 152 consiste sostanzialmente in una maggiore articolazione della disciplina degli accordi di programma (fra l’altro vengono introdotti l’obbligo di approvazione dell’accordo con decreto ministeriale e l’obbligo di pubblicazione in GU). Una seconda novità consiste nella introduzione di una disposizione di non facile interpretazione (art. 181, comma 4), secondo la quale gli accordi di programma “attuano le disposizioni previste dalla parte quarta del presente decreto, oltre a stabilire semplificazioni in materia di adempimenti amministrativi nel rispetto delle nome comunitarie e con l’eventuale ricorso a strumenti economici”. Per quanto venga chiarito che resta comunque fermo il limite del diritto comunitario, non appare chiaro, dalla suddetta formulazione, se, ed eventualmente in che limiti, gli accordi possano derogare alle norme vigenti in materia di gestione dei rifiuti. Infine, una terza innovazione consiste nella previsione che tali accordi possano essere promossi anche attraverso incentivi di carattere economico, a cui possono essere destinate specifiche risorse finanziarie (art. 206, comma 4).

 

Un secondo elemento generale che caratterizza le innovazioni in materia di rifiuti recate dal decreto n. 152 la tendenza al restringimento dell’ambito di applicazione della normativa stessa.

Occorre in proposito premettere che alcune esclusioni dall’ambito di applicazione delle norme sui rifiuti erano già state disposte da atti normativi precedenti (in particolare, nella XIV legislatura, si ricordano l’esclusione del combustibile da rifiuti, operata dall’art. 1, comma 29, della legge n. 308 del 2004, la norma di interpretazione autentica in materia di esclusione delle terre e rocce da scavo recata dall’art. 1, comma 17, della legge n. 443 del 2001, l’esclusione dei residui e delle eccedenze derivanti dalle preparazioni nelle cucine destinati alle strutture di ricovero di animali di affezione, disposta dall’art. 23 del “collegato ambientale”[15], l’esclusione del il coke da petrolio utilizzato come combustibile per uso produttivo, disposta dal decreto legge n. 22 del 2002, l’esclusione).

Il decreto legislativo n. 152 introduce alcune nuove esclusioni, quale quella del materiale litoide estratto dai corsi d’acqua (art. 185, comma 1, lett. l), che potrebbe rappresentare un primo passo verso la ammissione – per legge - di tale materiale quale corrispettivo dell’appalto nelle opere di sistemazione e di manutenzione degli alvei disposte dalle autorità amministrative competenti.

Tuttavia, i maggiori effetti restrittivi dell’ambito di applicazione della normativa sui rifiuti derivano dalla revisione di alcune definizioni recate all’art. 183 (in particolare quelle di “sottoprodotto” e di “materia prima secondaria”) e dalla disciplina dei rottami ferrosi. Anche in questo caso, si rinvia, per approfondimenti, alla scheda Il riordino del diritto ambientale - Novità in materia di rifiuti e bonifiche.

§      Altre finalità generali riscontrabili nelle norme del decreto legislativo n. 152 relative ai rifiuti sono l’incentivazione della termovalorizzazione e l’introduzione del principio di concorrenzialità nell’attività dei consorzi obbligatori previsti per determinate categorie di rifiuti. Particolare menzione deve essere fatta all’introduzione di una norma (art. 200) che obbliga le regioni a costituire, entro 6 mesi dall’entrata in vigore del decreto, autorità d’ambito per la gestione integrata dei rifiuti urbani. Tali autorità dovranno aggiudicare il servizio esclusivamente attraverso gara e secondo modalità e criteri che dovranno essere definiti con un apposito decreto ministeriale. E’ opportuno ricordare che l’esclusività dell’affidamento con gara rappresenta un’ulteriore deroga alle norme generali in materia di servizi pubblici locali recate dall’art. 113 del testo unico enti locali (v. il capitolo Disciplina dei servizi pubblici locali [16].

Da ricordare, infine, le innovazioni normative in materia di bonifica dei siti contaminati, con l’introduzione delle procedure di analisi del rischio e di determinazione delle concentrazioni soglia di contaminazione (CSC) e delle concentrazioni soglia di rischio (CSR).

Inquinamento atmosferico

La Parte Quinta del decreto legislativo ha riordinato, con un tasso di innovatività inferiore alle altre parti, le norme in materia di tutela dell’aria e di riduzione delle emissioni atmosferiche.

L’elemento forse più significativo del riordino consiste nell’opera di raccolta e coordinamento - in un corpo normativo unitario – di tutte le norme in materia di tutela della qualità dell’aria, che derivavano da una disordinata stratificazione risalente addirittura agli anni ‘60[17], nella quale norme di rango primario apparivano sovrapposte e intersecate da norme di rango subprimario.

Alla trattazione più dettagliata dei contenuti normativi della Parte Quinta del decreto legislativo n. 152 è dedicata la scheda Il riordino del diritto ambientale - Novità in materia di tutela dell’aria. Qui si richiamano solo in forma sintetica le principali innovazioni, consistenti in:

§      introduzione (art. 269) di disposizioni in tema di rilascio dell'autorizzazione alle emissioni in atmosfera finalizzate alle semplificazione amministrativa, alla certezza dei tempi del procedimento e al concorso di tutti gli enti locali;

§      previsione di una durata fissa (15 anni) per le autorizzazioni. Si ricorda che la normativa previgente non disponeva un termine fisso;

§      determinazione di soglie di potenza, stabilite in funzione del combustibile utilizzato, al fine di rendere più agevole l'individuazione della disciplina applicabile agli impianti termici civili;

Danno ambientale

Infine, l’ultima parte del decreto – Parte Sesta – è dedicata alla disciplina del danno ambientale e delle relative azioni risarcitorie.

Anche in questa parte del decreto legislativo, come in quella relativa ai rifiuti, le innovazioni normative – sul piano dei contenuti - appaiono rilevanti.

Occorre in proposito premettere che l’ordinamento previgente poggiava in gran parte su istituti classici del diritto civile, assoggettati ad una interpretazione evolutiva (artt. 844[18] e 2043[19] del codice civile). Tale situazione presentava tuttavia degli inconvenienti, in quanto quegli istituti non sempre risultano funzionali alla soluzione delle questioni che si sollevano in materia di danno ambientale.

Infatti, l'ambiente come bene specifico, meritevole di propri distinti strumenti di tutela, è venuto emergendo nella storia più recente del nostro ordinamento.

Nel 1986, con la legge n. 349 del 1986, il legislatore, nel dar vita al Ministero dell'ambiente, ha affrontato direttamente il problema del danno ambientale.

Secondo la definizione recata dall’articolo 18, comma 1, della legge n. 349 del 1986, per danno ambientale deve intendersi “qualunque fatto doloso o colposo in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge che comprometta l'ambiente, ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte”. Tale danno, ai sensi della stessa norma, “obbliga l'autore del fatto al risarcimento nei confronti dello Stato[20].

Gli elementi di principale interesse di questa innovazione normativa - introdotta nella stessa legge istitutiva del Ministero dell'ambiente - furono:

1.      la creazione di una autonoma nozione di ambiente quale bene giuridico unitario (la cui difesa veniva svincolata da quella di altri diritti individuali[21]);

2.      l’introduzione di una responsabilità individuale;

3.      l’adozione di un modello di imputazione di responsabilità fondato sulla colpa (e quindi non sulla “responsabilità oggettiva”);

4.      l’individuazione dei soggetti legittimati, attivi e passivi[22];

5.      la deroga al principio generale della responsabilità solidale (ex art. 2055 cc) e la previsione – per il danno ambientale – della responsabilità parziaria[23];

6.      l’attribuzione della giurisdizione al giudice ordinario;

7.      l’individuazione della forma risarcitoria (in primo luogo: ripristino dello stato dei luoghi a spese del responsabile)[24].

Tuttavia, dopo quasi venti anni dal suo varo, era diffusa l’opinione (anche se spesso con opposte motivazioni) che questa normativa di carattere generale non avesse trovato una facile e soddisfacente applicazione. I motivi più frequentemente denunciati erano diversi. In primo luogo, il modello della responsabilità per dolo o colpa pone a carico del danneggiato l’onere della prova della sussistenza del dolo o della colpa. Inoltre, anche la difficoltà nella stima dei danni, nonché i tempi lunghissimi della giustizia civile, hanno giocato un ruolo negativo. Non da ultimo, è anche il caso di ricordare che l'art. 18 ha aperto problemi interpretativi che hanno avuto conseguenze non irrilevanti sia dirette, sia indirette (ad esempio sul piano assicurativo) su molti settori economici.

Occorre poi ricordare che la responsabilità per danno ambientale delineata dall’articolo 18 della legge n. 349 non esauriva il quadro delle fonti normative in materia: in primo luogo, l’articolo 17 del “decreto Ronchi con cui

§         sono state introdotte specifiche fattispecie di responsabilità oggettiva, che prescindono da qualunque accertamento del dolo o della colpa e si basano sul mero nesso di causalità;

§         differentemente dalla responsabilità ex art. 18 della legge n. 349 – che richiede la effettiva compromissione del bene ambientale – sono state introdotte anche  ipotesi di semplice esposizione al pericolo.

Di tenore parzialmente analogo, l’art. 58, comma 1, del decreto legislativo 11 maggio 1999, n. 152, in materia di inquinamento delle acque.

Infine, si ricorda che l’articolo 22 del decreto legislativo 12 aprile 2001, n. 206 (che disciplina l’impiego confinato dei microrganismi geneticamente modificati) ha introdotto una terza ipotesi normativa di responsabilità per inquinamento ambientale, specificamente riferita all’inquinamento da MOGM.

 

Se questo è – in estrema sintesi – il quadro normativo preesistente al decreto legislativo n. 152, un secondo elemento di contesto che occorre considerare per inquadrare correttamente le innovazioni normative introdotte è l’entrata in vigore della direttiva 2004/35/CE. Il 21 aprile 2004 è stata infatti definitivamente approvata (e pubblicata in GUCE il 30 aprile) una direttiva comunitaria, da lunghi anni attesa e risultato di un lavoro preparatorio che era culminato nel 1993 nella pubblicazione del Libro Verde sul risarcimento dei danni all’ambiente e, nel 2000, nella pubblicazione del Libro bianco sulla responsabilità per danni all’ambiente.

Entro il 30 aprile 2007 gli Stati membri sono tenuti a recepire le nuove norme comunitarie. Per una descrizione del contenuto della direttiva, si rinvia alla scheda Danno ambientale - Direttiva 2004/35/CE.

 

La nuova disciplina, introdotta dalla Parte Sesta del decreto legislativo n. 152 del 2006, attribuisce al Ministero dell’ambiente il compito di promuovere l’azione risarcitoria e dispone che il risarcimento debba avvenire preferibilmente in forma specifica, cioè con il ripristino della situazione precedente. Solo ove il ripristino risulti anche parzialmente impossibile oppure eccessivamente oneroso, il Ministro dell’ambiente può richiedere che il risarcimento avvenga per equivalente patrimoniale.

Lo strumento attraverso cui si esercita questa competenza del Ministro dell’ambiente è quello di una specifica ordinanza-ingiunzione immediatamente esecutiva, i cui termini sono definiti dall’art. 313, con la quale si procede – in via amministrativa, e non in sede giurisdizionale, come nel sistema finora vigente – anche alla quantificazione del danno. Si osserva che le nuove norme sono interamente sostitutive della disciplina dell’azione risarcitoria che era stata vigente nel diritto italiano a partire dalla legge n. 349 del 1986 (istitutiva del Ministero dell’ambiente) e che era basata prevalentemente sulla ricostruzione giurisprudenziale dei principi recati dall’articolo 18 di quella legge (ora abrogato dal decreto legislativo n. 152).

Pertanto, le innovazioni principali sembrano riguardare tutti gli aspetti più controversi, sopra richiamati:

Il nuovo sistema, infatti, opta per il principio della responsabilità per dolo o colpa (art. 311, comma 2)[25], mentre nel sistema italiano si veniva affermando (soprattutto a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 17 del decreto legislativo n. 22 del 1997) un sistema basato sulla responsabilità oggettiva.

Occorre chiarire – in proposito - che anche la direttiva 2004/35/CE è modellata su un sistema di responsabilità per dolo o colpa per le attività non pericolose, mentre per un numero definito di attività “pericolose”, la responsabilità è oggettiva.

Anche in merito ad un secondo aspetto rilevante, la legittimazione ad agire, le innovazioni sembrano sostanziali. Infatti, nel sistema previgente (art. 18, comma 3, della legge n. 349), l'azione di risarcimento del danno ambientale, anche se esercitata in sede penale, era promossa dallo Stato, nonché dagli enti territoriali sui quali incidano i beni oggetto del fatto lesivo. Ai sensi del comma 5 dello stesso art. 18, inoltre, le associazioni ambientali (di cui all'articolo 13 della legge 8 luglio 1986, n. 349) potevano intervenire nei giudizi per danno ambientale. Si deve poi ricordare che, con la legge n. 265 del 1999, era stata introdotta la possibilità per le associazioni di protezione ambientale di proporre le azioni risarcitorie di competenza del giudice ordinario che spettino al comune e alla provincia, conseguenti a danno ambientale. L'eventuale risarcimento era liquidato in favore dell'ente sostituito e le spese processuali erano liquidate in favore o a carico dell'associazione[26].

Il sistema previsto dallo schema di decreto è invece diverso per due motivi:

§      in quanto riserva alla sola amministrazione centrale la facoltà di agire,

§      in quanto tale azione non avviene in via giudiziaria, ma amministrativa, attraverso una ordinanza-ingiunzione.

Lo schema prevede che i soggetti diversi dal Ministro dell’ambiente non possano agire in giudizio, ma – in merito ad ogni caso di danno ambientale o di minaccia imminente di danno - possano:

§      presentare denunce o osservazioni al Ministro dell’ambiente

§      chiedere l’intervento statale

I soggetti legittimati a questo genere di azione sono:

§      regioni, province autonome ed enti locali

§      persone fisiche o giuridiche che:

a)      sono o potrebbero essere colpite dal danno

b)      vantano un interesse legittimante (fra queste il comma 2 dell’art. 309 indica anche le associazioni ambientali riconosciute).

Infine, il comma 5 dell’art. 306 disciplina una attività di partecipazione dei soggetti interessati. Anche qui si rileva la analogia con le disposizioni comunitarie (comma 4 dell’articolo 7 della direttiva).

In sostanza, il Ministro dell’ambiente è tenuto a richiedere a tali parti di presentare le proprie osservazioni e a “tenerle in considerazione”.

Anche in relazione al ruolo dei soggetti eventualmente interessati all’azione di risarcimento del danno ambientale (ma diversi dall’autorità competente) si riscontra tuttavia come lo schema di decreto operi sostanzialmente un ricalco del sistema previsto dalla direttiva. In particolare, si evidenzia un parallelismo fra l’art. 12 della direttiva e l’art. 309 dello schema di decreto.



[1] Si ricorda che anche la V Commissione e la XIV Commissione hanno esaminato lo schema di decreto (rispettivamente, nelle due sedute dell’11 gennaio 2006 e nelle due sedute del 20 dicembre 2005 e dell’11 gennaio 2006).

[2] La V Commissione ha esaminato l’Atto del Governo n. 596 nelle sedute del 26 e del 31 gennaio, mentre la XIV Commissione ha esaminato lo schema nella seduta del 1° febbraio 2006.

[3] Il primo parere approvato dalla VIII Commissione della Camera nella seduta del 12 gennaio 2006 recava 21 condizioni e 78 osservazioni. L’intervento del relatore On. Foti nella seduta del 25 gennaio, di illustrazione del nuovo testo trasmesso dal Governo (Atto del Governo n. 596), sottolineava che – delle 21 condizioni proposte nel primo parere – 20 risultavano essere state accolte nel nuovo testo. Analoga soddisfazione veniva espressa per il significativo numero di osservazioni che avevano trovato un sostanziale accoglimento da parte del Governo.

[4] Art. 6 della legge n. 349 del 1986, DPCM n. 377 del 1988 e DPCM 27 dicembre 1988.

[5] DPR 12 aprile 1996, in seguito modificato ed integrato dal DPCM 3 settembre 1999 e dal DPCM 1 settembre 2000.

[6] Piani di settore a carattere nazionale.

[7] Si ricorda che l’art. 30 della legge n. 183 del 1989 aveva previsto l’individuazione di un bacino-pilota (scelto per le particolari condizioni di dissesto idrogeologico, di rischio sismico e di inquinamento delle acque), nel quale procedere alla predisposizione del piano di bacino e alla sperimentazione delle normative tecniche e delle più opportune modalità di coordinamento con i piani di risanamento delle acque e di smaltimento dei rifiuti. Tale bacino era stato individuato nel bacino del Serchio. In quanto bacino-pilota, il bacino del Serchio è dotato di piena autonomia funzionale ed organizzativa, come i bacini di rilievo nazionale.

[8] Più precisamente l’art. 159, comma 1, prevede che il Comitato assuma la denominazione di Autorità di vigilanza sulle risorse idriche e sui rifiuti, in cui confluisce anche l’Osservatorio nazionale sui rifiuti. L’art. 207, comma 2, dispone quindi che l’Autorità, “oltre alle attribuzioni individuate dal presente articolo, subentra in tutte le altre competenze già assegnate dall’articolo 26 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22 all’Osservatorio nazionale sui rifiuti, il quale continua ad operare sino all’entrata in vigore del regolamento” che, ai sensi del comma 4 dell’articolo 159 del presente decreto, dovrà disciplinare l’organizzazione e il funzionamento, anche contabile, dell’Autorità stessa. Per tale regolamento, ai sensi del citato comma 4, è prevista l’adozione con delibera del Consiglio dell’Autorità e l’emanazione con DPCM ai sensi dell’art. 17, comma 3, della legge n. 400/1988.

[9] Le direttive 91/156/CEE sui rifiuti, 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e 94/62/CE sugli imballaggi.

[10] Ad esempio Agenzie regionali di protezione ambientale o soggetti titolari del servizio pubblico locale di raccolta e gestione dei rifiuti.

[11] Ad esempio imprese, consorzi di imprese, associazioni di categoria.

[12] In particolare, il comma 6 dell’art. 181 fa riferimento ai “metodi di recupero dei rifiuti utilizzati per ottenere materia prima secondaria, combustibili o prodotti”.

[13] L’art. 4, comma 4, del “decreto Ronchi” disponeva che “Le autorità competenti promuovono e stipulano accordi e contratti di programma con i soggetti economici interessati al fine di favorire il riutilizzo, il riciclaggio ed il recupero dei rifiuti, con particolare riferimento al reimpiego di materie prime e di prodotti ottenuti dalla raccolta differenziata con la possibilità di stabilire agevolazioni in materia di adempimenti amministrativi nel rispetto delle norme comunitarie ed il ricorso a strumenti economici”.

[14] L’articolo citato della direttiva prevede che “possono essere dispensati dall'autorizzazione di cui all'articolo 9 o all'articolo 10:

a) gli stabilimenti o le imprese che provvedono essi stessi allo smaltimento dei propri rifiuti nei luoghi di produzione, e

b) gli stabilimenti o le imprese che recuperano rifiuti.

Tale dispensa si può concedere solo qualora si verifichino le seguenti due circostanze:

§       le autorità competenti abbiano adottato per ciascun tipo di attività norme generali che fissano i tipi e le quantità di rifiuti e le condizioni alle quali l'attività può essere dispensata dall'autorizzazione;

§       i tipi o le quantità di rifiuti ed i metodi di smaltimento o di recupero siano tali da rispettare le condizioni imposte all'articolo 4”.

[15]Legge 31 luglio 2002, n. 179.

[16] Si ricorda – in proposito – che, secondo il recente III Rapporto FISE-Assoambiente (aprile 2006), nel settore della gestione dei servizi urbani (raccolta e trasporto), le società pubbliche sono aumentate, a confronto con il 2002, del 4,8% (dal 30% al 34,8% complessivo), mentre le società miste del 4%. Parallelamente, le società private nello stesso periodo sono diminuite del 5%: oggi, solo il 28,2% dei comuni italiani dichiara di gestire il trasporto e la raccolta di rifiuti urbani attraverso imprese a capitale privato, mentre il 2002 tale percentuale raggiungeva il 33,2%.

[17] La prima legge in materia viene considerata anche la prima legge ecologica comparsa nell’ordinamento italiano, in quanto costituisce il primo modello di intervento dello Stato nella disciplina dell’inquinamento: la legge 13 luglio 1966, n. 615. L’origine di questa legge da una nuova finalità, di carattere ecologico appunto, si rileva nella circostanza che essa recava una disciplina unitaria, estesa a tutte le fonti di possibili emissioni in atmosfera di fumi o gas nocivi.

[18] Ai sensi del primo comma dell’art. 844 c.c. “il proprietario di un fondo non può impedire le immissioni di fumo o di calore, le esalazioni, i rumori, gli scuotimenti e simili propagazioni derivanti dal fondo del vicino, se non superano la normale tollerabilità, avuto anche riguardo alla condizione dei luoghi”. Il secondo comma specifica la regola generale contenuta nel primo prevedendo che "nell'applicare questa norma l'autorità giudiziaria deve contemperare le esigenze della produzione con le ragioni della proprietà. Può tener conto della priorità di un determinato uso”. La giurisprudenza in materia ha assunto – nell’ultimo trentennio – un carattere fortemente evolutivo.

[19] L'art. 2043 cod. civ. rappresenta invece la norma generale sul risarcimento del danno da fatto illecito. Tale norma è in vario modo coniugabile con l'art. 844 cod. civ.

[20] E’ utile ricordare che il concetto di danno ambientale non era comunque del tutto sconosciuto al nostro sistema giuridico al tempo dell’entrata in vigore della legge istitutiva del Ministero dell’Ambiente: sin dagli anni ’70 il giudice contabile aveva ricondotto il danno ambientale alla nozione di danno erariale, con conseguente competenza decisoria della Corte dei Conti stessa.

[21] Quali proprietà e salute.

[22] Ai sensi del successivo comma 3 dello stesso articolo, l’azione per il risarcimento del danno , anche se esercitata in sede penale, era promossa dallo Stato e dagli enti territoriali sui quali incidono i beni oggetto del fatto lesivo, mentre la risarcibilità del danno era riconosciuta solo a favore dello Stato.

Si deve ricordare, in proposito, che – con modifica alla legge n. 142 del 1990 – la legge n. 265 del 1999 ha introdotto una importante novità in materia di legittimazione ad agire, stabilendo che le associazioni di protezione ambientale (di cui all'articolo 13 della legge 8 luglio 1986, n. 349) possono proporre le azioni risarcitorie di competenza del giudice ordinario che spettino al comune e alla provincia, conseguenti a danno ambientale. L'eventuale risarcimento è liquidato in favore dell'ente sostituito e le spese processuali sono liquidate in favore o a carico dell'associazione.

Le norme appena citate sono ora comprese nell’art. 9 del TU delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267.

[23] Ai sensi del comma 7, “ nei casi di concorso nello stesso evento di danno, ciascuno risponde nei limiti della più propria responsabilità individuale”.

[24] Il comma 6 stabilisce, inoltre, che il giudice, ove non sia possibile una precisa quantificazione del danno, ne determina l'ammontare in via equitativa, tenendo comunque conto della gravità della colpa individuale, del costo necessario per il ripristino e del profitto conseguito dal trasgressore in conseguenza del suo comportamento lesivo dei beni ambientali.

[25] Anche se agli articoli 304 e 305, sembra invece riaffacciarsi un principio di responsabilità oggettiva (almeno per l’”operatore”, senza peraltro specificare se con tale termine debba intendersi colui che svolge attività pericolosa o meno).

[26] Le norme appena citate sono ora comprese nell’art. 9 del TU delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267.